Ti prego, vieni un pomeriggio di aprile in macchina con me. Andiamo al Poetto quando non c’è vento, basta la felpa, senza giubbotto. Camminiamo scalzi finché il sole si fa basso. Allora torniamo in città, quando la torre diventa arancione, quando la luce non batte più in via Università, manco fosse la Quinta Strada. Quando il colore del cielo è tale da darti la più sincera e profonda speranza. Ti prego, vieni con me e poi dimmi che io qui non ci posso stare, non ci dovrei stare, non ci potrei stare. Raccontami della rocca di Gibilterra, dei tramonti in Svezia, dimmi tutto quello che c’è la fuori. Leggimi l’articolo del chirurgo che da Cagliari va a New York, fammi vedere quanto sta bene il tuo amico della start-up a Bangkok. Prova quindi a staccarmi da qui, ma io mi aggrappo con le unghie, non so se ci riesci. E se anche le mani cedono uso i denti e mi dibatto e mi agito e mi scuoto.
Ma ti prego, vieni con me anche a giugno. Lascia che ti mostri quanto è facile lasciare i pensieri sulla sabbia, lì dove si poggia la testa. Fai tutto con me, arriviamo tardi, porto io i panini, arrostiamoci al sole e abbandoniamoci in acqua. Porto pure le parole crociate e solo quando la luce è un filo sottile ci sediamo al bar e io prendo il solito Cremino. E solo dopo mostrami come trovare fortuna in Australia. E se ancora sarai qui, aspetta una settimana ché andiamo a Villassimius, saliamo sul promontorio e guardiamo lontano e non torniamo a casa prima degli altri, ci imbottigliamo sulla 125, perché tanto che cambia se ceniamo alle dieci? Sulla strada del ritorno, con i piedi scalzi poggiati sul cruscotto e la salsedine che ti morde le guance, prendi il cellulare, fammi vedere come se la passa quel tuo amico a Bologna. Mostrami con entusiasmo la lista degli esami che danno quelli che studiano Psicologia a Padova o Lingue a Pisa. Quando torniamo a Cagliari, però, se hai voglia ti porto al Bastione, segui le mie istruzioni e vedrai Bonaria in mezzo all’arco e un po’ più indietro la Sella. Andiamo a mangiare in vico Barcellona e ti autorizzo a darmi la cifra dello stipendio netto annuale di tua cugina Vittoria, che dirige un Hotel a Parigi, solo mentre hai la bocca piena di fregola, che ti scotta la lingua e ti inebria il palato. Rovesciati quel bicchiere di vino in gola e ancora prova a tirarmi via, denigrami, insultami pure.
Se poi invece partirai, vienimi a trovare un sabato di luglio a Tuerredda. Arrivo a mezzogiorno e vado via tardi, mi bevo una birra al chiosco bianco, con il mento sulla staccionata e lo sguardo sognante. Senti quanto è soffice la sabbia? Vedi che i miei piedi affondano? Quanta forza ti serve per liberarli, sembrano incollati ed è per questo che non riesci a portarmi via. Ti riaccompagno io a casa, spengo la radio e lascio parlare te: del tuo erasmus, delle tue ambizioni, di quanto hai capito come funzionino bene le cose di là e male di qua. Ci rivediamo a ottobre, dai vieni che faccio gli spaghetti con i ricci. Come dici? Torni prima? E allora facciamo i chilometri, la benzina posso ancora permettermela. Ti porto ad Alghero, ti faccio mangiare la focaccia del Milese, con la cipolla il pomodoro, le uova, il prosciutto, non ci riesci a trattenerli tutti quei sapori. Ho ancora dei soldi: attraversiamo l’Isola, andiamo a Tavolara, ti porto in una spiaggia che chiamano Tahiti. Ne hai di tempo per convincermi, giuro che anche stavolta non accendo la radio. No, non ci riesci, te lo prometto. Se mi dovessi sbagliare, se riuscissi a farmi vacillare ti prometto che andrei via. Fino a quel momento lasciami qui e vieni a trovarmi ogni volta che vuoi, ho così tanto da farti vedere, ho così tanto di cui farti innamorare.